La ripresa è a portata di mano e l’Italia può tornare a crescere, nonostante la crisi connessa alla pandemia di Covid, che insieme agli oltre quattro milioni di casi e 125mila decessi, ha determinato secondo l’FMI un calo del Pil nazionale previsto nel 2020 intorno al -9%. Possiamo sostenere questa tesi sulla base di più fatti: dalla disponibilità dei fondi di Next Generation EU, alla modalità della sua attuazione, molto positiva, da parte del Governo Draghi, a una maggiore convergenza degli Stati a seguire politiche espansive e a concordare sul fatto che le economie – come le emergenze sanitarie – sono sempre più interconnesse. Il nostro Paese può cogliere tale opportunità se incentiverà una maggiore dimensione e solidità delle nostre aziende. Il che si può ottenere, oltre che attraverso una maggiore capitalizzazione, con attività di convergenza: dalle forme cooperative o di reciproco sostegno tra le aziende, come tipico dei distretti produttivi nazionali, alle operazioni di fusioni e acquisizioni (M&A). Solo organizzazioni più grandi e forti potranno investire nei tre punti cardine che la competitività globale richiede: capitale umano, internazionalizzazione e tecnologia.

Il contesto è favorevole. Il PNRR (Piano Nazionale Ripresa Resilienza) è un disegno di 248 MLD, tra 191 di Next Generation EU (69 di prestiti e 122 a fondo perduto) e altri stanziati dal Governo, che dovrebbe rimettere in pista l’Italia. Tuttavia, le nostre aziende, in sofferenza dalla primavera del 2020 a causa della pandemia, malgrado il sostegno dello Stato, continuano ad avere problemi di capitale di rischio, così da essere esposte alla scalata da parte della concorrenza estera e da non poter investire. Secondo i dati di inizio anno della società che presiedo (Livolsi & Partners) su un campione rappresentativo di aziende, il 17% di esse dichiara di avere problemi di patrimonio netto, il 20% di liquidità e il 33% di riduzione importante di fatturato. La fotografia riflette quella di Banca d’Italia, in base al cui Rapporto sulla stabilità finanziaria di novembre 2020, la quota di società di capitali in deficit patrimoniale raggiungerebbe il 12,0% alla fine dell’anno a fronte del 6,9% precedente la crisi. Senza le misure di sostegno introdotte, le società avrebbero seri problemi di deficit. Sempre grazie alle stesse azioni di supporto (Cig, moratoria debiti PMI, posticipi adempimenti fiscali e contributi a fondo perduto) il calo del fatturato determinerebbe un importante fabbisogno di liquidità. Aumenterebbero anche le probabilità di insolvenza. Le cause della bassa capitalizzazione delle imprese italiane si devono al fatto che da un lato il sistema è storicamente dipendente dalle banche, dall’altro la proprietà teme di condividere le decisioni. Se le nostre hanno problemi di capitale, non possono investire in crescita, innovazione e in manager capaci. Bisogna spingere le imprese ad apportare più capitale con conseguenti minor imposte sul reddito.

Sul fronte dimensionale, saranno importanti le sinergie che si attiveranno tra le aziende, anche di settori diversi, e la collaborazione tra le imprese a livello locale. Si tratta in un certo senso di riscoprire quella vocazione cooperativistica di alcuni territori, si pensi ai famosi distretti italiani, da quelli del legno a quelli delle piastrelle, da quelli delle tecnologie avanzate alle eccellenze delle agricole. Fondamentali saranno soprattutto le operazioni di M&A. Il 2021 sta diventando anche l’anno della ripresa per le operazioni di aggregazione e fusione. Le aziende cercano margini e queste operazioni consentiranno ai gruppi di ridurre costi e aumentare la marginalità per i propri azionisti. Alcune delle tendenze già in atto nel mercato a livello globale, si sono ulteriormente consolidate con la pandemia. Anche in Italia i fattori ESG e la sostenibilità ambientale in particolare sono sempre più un driver per l’attività di M&A. Tali operazioni negli ultimi anni hanno iniziato a essere percepite in modo diverso dagli imprenditori, che prima guardavano a esse con una certa diffidenza. Oggi le considerano strumento di crescita. Sono convinto che ci sarà un’estensione di tali processi non solo alle grandi aziende, ma soprattutto tra le PMI e le piccole imprese, il che è molto importante perché queste due ultime rappresentano oltre il 90% del nostro tessuto produttivo.

A tutto ciò contribuiranno la semplificazione degli strumenti, penso ad alcune piattaforme Fintech, che per esempio mettono in contatto le aziende eliminando intermediari così facilitando l’accesso al mercato dei capitali e del debito. Sono sicuro che anche il Governo Draghi faciliterà questi processi ricorrendo alla canalizzazione dei fondi europei e alle agevolazioni fiscali verso quei settori produttivi che assecondano tale visione complessiva. Esistono poi strumenti innovativi per aumentare la capitalizzazione e l’eventuale M&A. Mi riferisco ai PIR (Piani Individuali di Risparmio), tra i più recenti introdotti nel nostro Paese. Un’opzione che si è rivelata utile per allargare la prospettiva dell’investimento, anche alla luce delle nuove disposizioni legislative che aboliscono la tassazione sui capital gain se i PIR sono detenuti da alcuni anni e viene dato loro un appeal fiscale di un credito d’imposta del 20% sulle perdite degli investimenti realizzati nell’esercizio 2021.

Gli spazi temporali per il disinvestimento dovrebbero però essere ridotti. Il problema è che il contesto in cui trovano il loro spazio d’azione è poco flessibile. È cioè difficile trovare liquidità per una buona parte dei PIR se le società non vengono quotate e oggi l’offerta delle società alla Borsa FTSE MIB e all’AIM (Alternative Investment Market) non consente quel ventaglio di possibilità ampio proprio di altre piazze finanziarie. A proposito di Borsa, è utile anche qui ricordare, il ritardo delle aziende italiane a quotarsi, un altro modo per acquisire capitale, ingrandirsi e realizzare M&A. Secondo Borsa Italiana, a fine 2020, la capitalizzazione complessiva delle società quotate a Piazza Affari era scesa a 607 miliardi di euro, mentre l’anno precedente era stata di 651 miliardi. All’opposto Wall Street ha avuto un 2020 record, con il dato sulle IPO (Initial Public Offering) USA che ha raggiunto l’eccezionale cifra di 435 miliardi di dollari. La vera svolta ci potrebbe essere con la concessione di importanti agevolazioni fiscali per favorire il risparmio interno a confluire nelle quotazioni di aziende italiane. In un mercato non molto liquido come l’AIM, negli ultimi due anni, le aziende che si sono quotate hanno avuto una capitalizzazione cresciuta di oltre il 70%.

Sarebbe anche auspicabile che il Governo Draghi spingesse gli italiani e le aziende a investire nell’Italia. Da tempo sono fautore di un “fondo dei fondi”, un fondo di private equity, pubblico/privato (50% ciascuno), col coinvolgimento di CDP, dove per attrarre i risparmiatori si possa prefigurare una liquidation preference ai privati rispetto alle istituzioni finanziarie che potrebbero conferire parte dei loro crediti UTP (Unlikely To Pay) che facciano riferimento ad aziende con prospettive di salvataggio e solamente alla fine avvenga il rimborso per altri reinvestimenti alla parte pubblica. Gli italiani sono grandi risparmiatori. Se si riuscisse a destinare il 10% dei 1.750 MLD di depositi esistenti sui c/c dei privati degli italiani e altrettanti dal pubblico agli investimenti, attiveremmo un volano straordinario, una mole di denaro di gran lunga superiore ai fondi previsti da Next Generation EU.